Tiny Bulls Studios
Il mondo dei videogiochi è in crescita poderosa. Solo nel 2016 ha esibito un segno più dell’8%, con un fatturato che ha sfondato il miliardo di euro. Ma è un mercato molto difficile, dove la fetta più grande è occupata da colossi che, per un singolo videogame, spendono centinaia di milioni di euro, con moltissimi sviluppatori e anni di lavoro. Da quando la frontiera è quella tecnologica, della resa sempre più reale, in pochi possono competere. Accanto a questi ci sono gli “indie”, prodotti videoludici creati da singoli o da piccole case, che, non potendo tenere banco sul terreno principale, si battono duramente su quello creativo, con risultati tutt’altro che marginali. In una posizione particolare c’è Tiny Bulls Studios, start up Torino.
Una grande stanza riempita di computer, attrezzature di ogni sorta, sensori all’avanguardia, un divano e una lavagna, scaffali pieni di ogni genere di cosa. A lavorarci ci sono cinque persone. A coordinarle Matteo Lana, 32 anni, da cui è partito tutto, pochi anni fa. Come si arriva a fare videogame? «Ho sempre voluto lavorare nel mondo dei videogiochi, fino a che non ho capito che non sarei riuscito a vivere giocando, e allora ho deciso di crearli». Il background di Matteo non ha tratti imprenditoriali, che, almeno nelle prime fasi, vengono rimpiazzati dalla conoscenza del campo: «Dopo il liceo scientifico ho fatto Informatica all’università con specializzazione in Realtà virtuale. Poi, poco dopo la laurea, invece che cominciare a mandare curriculum, con il mio socio Rocco abbiamo deciso di fare da soli, creando posti di lavoro e cercando di crescere». Inizialmente la vita della start up è decisamente dura, e i due soci vanno avanti facendo gli sviluppatori freelance per altri progetti: «Una fatica estrema, che non è ancora finita, e dura fino a che i videogiochi non vanno sul mercato e producono guadagni. Ancora cerchiamo di sopravvivere, crescendo stabilmente».
Le sorti di Tiny Bulls Studio cambiano notevolmente quando partono i due progetti propri. Il primo è Omen Exitio, un’avventura grafica-videogame, il secondo è Blind: un titolo da giocare con il visore per la realtà virtuale. Un progetto quasi futuristico, la cui particolarità deriva proprio dal livello di immersione: chi si cimenterà si troverà dentro una casa che, grazie al suono delle cuffie, al visore e ai sensori per le mani, dà l’impressione di essere reale, con il mondo esterno completamente scomparso. Il team è al lavoro sul progetto che uscirà a breve da tre anni, e nel frattempo, oltre a due collaboratori, sono arrivati due dipendenti. «Noi siamo partiti con un’ottica diversa rispetto alla maggior parte delle altre start up, subito con un’ottica aziendale». Qual è il punto forte del Tiny Bulls Studios? «Da un punto di vista tecnico, ora abbiamo tantissima esperienza, quindi siamo molto rapidi e molto precisi», ma il grande valore aggiunto è ancora un altro: «Abbiamo una passione sfrenata per il settore, e quindi una cultura sconfinata, dato che abbiamo letto, visto e giocato a migliaia di videogiochi, libri, film, fumetti, serie tv. Oltre a questo abbiamo scelto di fare qualcosa di unico e particolare, come nel caso di Blind». Anche in questo caso, inoltre, il rapporto con il territorio è stato ambivalente: «Il Piemonte è comunque uno dei posti migliori per fare start up. Noi abbiamo avuto un grande aiuto da parte di I3B, l’incubatore del Politecnico di Torino, che è stato vitale. Il fatto è che in Italia difficilmente trovi qualcuno che voglia investire, c’è diffidenza verso le start up e anche i venture capitalist sono estremamente pochi. Anche per quanto riguarda i fondi: magari riesci ad avere 50.000 euro, ma per noi non sono abbastanza, se si considera che per Blind, in tutto ne abbiamo spesi 350.000. Diciamo che le start up sono un sistema molto vivo. È come una coltura batterica: ce ne sono tantissime, ma pochi diventano organismi monocellulari, poi anfibi, arrivando infine a camminare sulla terra».